Le demolizioni del Ventennio
Oggi potrebbe sembrare folle, demolire centinaia di case, negozi, vicoli e chiese, ma erano altri tempi…
Parliamo un progetto denominato:”La via del Mare”; quel che oggi si chiama Via del Teatro Marcello e ciò che vediamo, calpestiamo e percorriamo oggi con l’auto, è il risultato di pesanti demolizioni che ne hanno per sempre cambiato aspetto.
Questo progetto urbanistico era deputato ad unire Piazza Venezia con l’Ostiense, partendo da Via Tor de Specchi. Per realizzarla furono sgombrate circa 2600 persone e 1300 appartamenti e negozi, in una delle più imponenti demolizioni del ventennio.
Nel descriverla ed affrontarla sotto il piano urbanistico ed iconografico, non mancheremo di contestualizzare il periodo storico in cui avvennero e le relative conseguente sulle condizioni sociali di chi prima viveva e lavorava nei luoghi trasformati dal “piccone risanatore”.
Particolare ricerca abbiamo dedicato alle migrazioni forzate dei residenti, in gran parte “deportati”, in quel fenomeno che si diffondeva in parallelo alle grandi opere viarie del ventennio; ossia le borgate.
Nel immaginario collettivo della popolazione romana, esiste inoltre un vero e proprio “mito di fondazione”. Una categoria etnografica, che vede negli sventramenti la causa originaria e principale, cui ricondurre tutti i mutamenti avvenuti tra le due guerre, nella redistribuzione territoriale delle categorie sociali.
Molti abitanti dei quartieri periferici sorti negli anni Venti e Trenta, nel rivendicare con orgoglio la propria “romanità”, sottolineano come la nascita del proprio quartiere sia da collegarsi al espulsione forzata dei ceti popolari dal centro storico.
Il “piccone demolitore – risanatore”, icona delle demolizioni del ventennio, trasfigurò molte zone che a Roma erano sopravvissute per secoli. Zone in cui al pari di altri edifici del centro, c’erano interessanti stratificazioni storiche e sociali, come un po lo è Roma entro le mura sino il 1870.
Ma la retorica urbanistica fascista, etichettava come simboli del degrado e fatiscenti, case che oggi varrebbero (ristrutturate al pari di quelle dei rioni adiacenti), fiori di milioni di Euro.
l tema era sempre il solito; “i monumenti devono giganteggiare nella doverosa solitudine, lontano dai simboli della decadenza”, così venivano “apostrofati” palazzi del 600 e del 400, superfetazioni medioevali , chiese e chiesette e quant’altro ostacolava la realizzazione di quinte monumentali ed arterie di ampio scorrimento.
A ben vedere, alcune concetti profetizzavano un traffico automobilistico lungi dal venire, dimostrando se non altro una lungimiranza che in qualche maniera, avrebbe giustificato almeno in parte, il sacrificio storico ed urbanistico perpetrato a tale fine.
Ma le demolizioni coincidono anche con un drastico ed imperativo stop al trasporto pubblico su ferro; una rete tranviaria ai tempi invidiabile , che si snodava sin nei vicoli più angusti del centro.
Certo Roma non aveva le Metro che fiorivano già da decenni nelle altre capitali europee, ma il suo sottosuolo non era paragonabile a quest’ultime e le talpe odierne non esistevano ancora.
Fu così che mentre i grandi sventramenti erano in atto ed alcuni già terminati, dopo il 31 Dicembre del 1929 venne smantellata gran parte della rete tranviaria esistente, a favore del trasporto pubblico e non, su gomma.
Esso nasce praticamente da questa forzatura storica nella capitale, di cui forse, la novella Fiat fu grande e interessata consigliera.
Il piccone demolitore
Tor de Specchi è l’ennesimo esempio una Roma in fase di essere disgregata nelle sue radici più profonde.
Quella Roma che fino al tardo 800 nei “Gran Tour”, era cantata da poeti e ritratta da pittori, dopo l’unità Italiana con i Savoia e la loro megalomania architettonica di ispirazione Asburgica, volle essere piegata ai nuovi Re.
Si forzò una visione in cui la capitale doveva ispirarsi a città come : Torino, Vienna o Parigi. Eppure lo stesso Haussman, architetto che stravolse l’urbanistica della capitale Francese, assunto dai Re come consulente, affermò: “tutto qui va lasciato come era”.
Malgrado ciò, dopo appena 10 anni dall’Unità d’Italia, arrivarono i muraglioni ed i nuovi ponti, il Vittoriano ed i “boulevard” monumentali come Via Cavour, Via Nazionale, Corso Vittorio Emanuele II e la nostra Viale Trastevere (ai tempi viale del Re).
Quest’ultime recisero a fine 800 senza alcun riguardo, un reticolo di vie , vicoli e rioni, fino a mutarne per sempre i contorni e la conformazione.
Ben presto alle opere dei Re seguirono quelle non meno invasive del Regime.
Introducendo nel 1956 un’edizione delle Passeggiate romane di Stendhal, classico della letteratura di viaggio fiorita intorno all’epopea del Grand Tour, Alberto Moravia faceva proprio l’assunto, secondo il quale la realtà sociale della città di Roma sarebbe rimasta immobile per circa due secoli.
Una Roma fumosa ed a tratti maleodorante ma cristallizzata nell’immagine pittoresca che avevano tramandato i viaggiatori colti del Sette-Ottocento.
La trasformazione monumentale di alcune aree del centro storico, fortemente voluta dal regime fascista e realizzata a tappe negli anni Venti e Trenta, avrebbe perciò costituito un improvviso momento di rottura, sconvolgendo il tradizionale assetto abitativo degli antichi rioni.
Nella formulazione di tale lettura , assunse un ruolo importante la tradizione del fortunato filone sulla “Roma sparita” che riproponeva – e ripropone tuttora con grandi successi editoriali – lo stereotipo di una città perennemente provinciale e arretrata.
Un centro città caratterizzato dalla presenza quasi esclusiva dei ceti popolari, con tutto il corredo degli elementi necessari a creare un paesaggio pittoresco dal fascino antico.
Il rimpianto estetizzante per l’unicità degli ambienti spariti ha influenzato, in modo decisivo, anche la letteratura critica sugli sventramenti sviluppatasi nel secondo dopoguerra.
L’immagine della realtà sociale nei luoghi demoliti che ha finito per prevalere è, nella sostanza, conforme a quella diffusa dal regime fascista che propagandava, tra gli effetti positivi dell’opera sventratoria, il benefico e necessario risanamento di aree insalubri e degradate.
La Roma descritta da D’Annunzio ne Il Piacere (1895), era ancora la Roma di Stendhal, al tempo stesso vasta e angusta, con una società fatta di stranieri e di nobili. Una plebe ancora legata alle tradizioni e una borghesia ristretta di mercanti e intermediari, il cosiddetto generone.
La Roma degli anni intorno al 1920 era ancora in gran parte quella di D’Annunzio, con pochi cambiamenti. La Roma di Stendhal è, dunque, durata fino quasi ai giorni nostri. Il primo vero colpo glielo diede il fascismo con gli sventramenti e gli isolamenti retorici dei monumenti classici e con la costruzione di interi nuovi quartieri per impiegati dello Stato e di cosiddette borgate per la povera gente
E’ bene ricordare per dovere di cronaca, che anche le successive demolizioni e sventramenti, imputati alla megalomania del duce, furano in realtà già ampiamente progettati ed approvati dal piano regolatore sabaudo.
Il duce se ne prese meriti e critiche, onori ed oneri, ma anche senza le sue ossessioni i piani sarebbero stati attuati. Lo stesso Vittoriano, che molti ancora credono sia una opera di Mussolini , benché ai tempi fosse poco più che adolescente.
Per il monumento eretto in tributo a Vittorio Emanuele II, fu raso al suolo un intero borgo medioevale alle pendici del Campidoglio. Eppure ancora dopo la sua inaugurazione del 1911. Pur nel suo biancore sfavillante di Botticino, così stridente con il contesto in cui era stato edificato, l’insieme era sicuramente più imponente di come lo vediamo oggi, Addossato quasi “chirurgicamente” a case e casupole del borgo Alessandrino a sinistra e l’Ara Coeli a destra, (di cui però venne sacrificato lo splendido chiostro quattrocentesco).
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Il piccone demolitore del ventennio però non si fece parlare dietro; i due lati del Vittoriano, come appena detto, stretti tra casupole e vecchio tessuto urbano, ne furono i primi banchi di prova . Spianò sia il borgo Alessandrino per la via dell’Impero e via Tor de Specchi, per quella che venne definita “La via del Mare”sul lato destro del Vittoriano, il sacrificio non fu da meno.
La via del Mare era una apologia che proiettava una visione del Vittoriano come spartitraffico tra monti (a sinistra) e mari (a destra). Un allargamento per congiungere quel che al tempo si chiamava Foro Italico alla via Ostiense e dunque al mare, in quel piccolo vicolo (Via Tor de Specchi) , che collegava dunque la cordonata dell’Ara Coeli a Piazza Montanara.
Di li le demolizioni proseguirono al Foro Boario e completando l’abbattimento delle case sulla rupe tarpea, con l’isolamento del Campidoglio.
Demolizioni quindi anche a via della Consolazione e successive tra via della Bufala e la Bocca della Verità, per spazzare via la vecchia Salara e; farne lungotevere Aventino.
A chiudere l’allaccio con la bramata Ostiense, un completo riassetto e ripavimentazione della Marmorata fino a Porta San Paolo.
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Chi viveva in quei luoghi?
Senza entrare nei meandri burocratici che precorsero demolizioni e l’assegnazione di nuove case per gli sfrattati è interessante conoscere la natura degli abitanti di quella fetta di Roma sparita.
L’Ufficio di Assistenza Sociale redasse dei veri e propri censimenti negli stabili da demolire, assumendo anche la responsabilità di decidere quali famiglie avessero diritto all’assegnazione di una casa dell’ICP e quali invece, dovessero procedere per proprio conto a trovarsi una nuova sistemazione.
I censimenti contengono perciò una notevole quantità di dati utili a ricostruire uno spaccato della realtà sociale presente nelle aree colpite dagli interventi: età e professioni degli abitanti, stati di famiglia, in alcuni casi anche i redditi percepiti ed in altri, il prezzo dei fitti pagati.
Il numero dei vani per ogni abitazione, delle famiglie in subaffitto e di quelle in regola o meno con l’iscrizione anagrafica. Le attività lavorative costituiscono l’indice più immediato per individuare la collocazione degli abitanti nella scala sociale.
Nei censimenti compaiono le occupazioni più disparate, variamente presenti in tutte le strade dell’area presa in esame, dove negli stessi immobili erano domiciliati rappresentanti delle varie categorie.
Ad esempio, negli edifici in piazza Foro Traiano 21, 30 e 34 abitavano membri di tutte le classi sociali, dagli ultimi esponenti di mestieri in via di sparizione come stagnari e abbacchiari fino a professionisti come avvocati e notai, passando per impiegati, negozianti, pensionati, donne di casa, giornalisti e ufficiali dell’esercito.
In via Alessandrina 111-113 vivevano un ragioniere, una sarta, un capitano, un meccanico e un cameriere, mentre in via di Campo
Carleo 6 era possibile trovare nello stesso stabile un calzolaio, un ingegnere, un avvocato, un impiegato e una casalinga.
È anche possibile farsi un’idea delle condizioni di vita delle famiglie, niente affatto classificabili secondo il consueto schema interpretativo che le vuole tutte riconducibili a un livello di estrema miseria, bensì altamente variabili a seconda della combinazione dei diversi fattori.
Se è vero che i ceti popolari erano presenti in misura massiccia nell’area campione, è anche da sottolineare l’esistenza di una vasta gamma di situazioni che vanno dai casi di famiglie con più di un membro fruitore di un reddito fisso a casi di intere e numerose famiglie mantenute da pensionati o lavoratori occasionali.
Dai dati demografici emerge una prevalenza del modello abitativo della “famiglia allargata”, in cui più nuclei familiari legati da rapporti di parentela convivevano sotto lo stesso tetto in appartamenti di pochi vani, ma non mancano esempi di moderne famiglie borghesi mononucleari.
Spesso la coabitazione non era neppure tra parenti, come dimostra l’alto tasso di famiglie che trovavano nella pratica del subaffitto, l’unico modo per fronteggiare il continuo aumento dei canoni di locazione.
Il sovraffollamento delle abitazioni era un problema cronico che affliggeva la città fin dalla sua proclamazione a capitale del Regno e che ricorreva periodicamente nella pubblicistica istituzionale.
Nell’assegnazione di case popolari alle famiglie sfrattate si cercò quindi di evitare che si riproponessero situazioni di coabitazione, considerate sconvenienti per motivi di igiene ma anche e soprattutto per una questione di “pubblica moralità”.
Per le demolizioni in via Tor de’ Specchi del luglio 1928 l’icp mise a disposizione 400 vani in località Villa Narducci, mentre ne venivano destinati 180 in piazza d’Armi, agli sfrattati per il primo allargamento previsto in via Alessandrina, 220 e 80 a Pontelungo per la liberazione del Teatro di Marcello.
Per il trimestre febbraio-aprile dell’anno successivo l’Ufficio di Assistenza Sociale sottolineava come, dei 280 alloggi messi a disposizione del Governatorato, molti fossero di carattere economico e quindi, per il prezzo del fitto e per le caratteristiche di costruzione, andassero assegnati a famiglie con una certa capacità finanziaria.
In particolare dunque alle famiglie borghesi residenti negli stabili del centro soggetti a demolizione.
Il suggerimento doveva essere stato messo in pratica se, nel maggio dello stesso anno, dei 131 alloggi rimasti disponibili, solo 9 erano di tipo economico contro i 122 di tipo popolare.
Illuminanti sono le collocazioni geografiche: le case economiche, la cui ampiezza variava tra i 4 e i 7 vani, erano situate a Montesacro (via Gargano), in via delle Sette Chiese, in piazza d’Armi, al Flaminio e in località Villa Certosa sulla via Casilina.
Le case popolari, di ampiezza compresa tra i 2 e i 5 vani, si trovavano a Ostiense, Testaccio, Garbatella, Portuense, Sant’Ippolito, Montesacro, San Saba, Porta Latina, Ponte Milvio, via Vitellia, via degli Orti d’Alibert a Trastevere.
Come si può notare, si tratta di zone a prevalente carattere popolare, ma ben diverse, per qualità abitative e dotazione di servizi, dalle cosiddette “borgate ufficiali” come San Basilio, Gordiani o Primavalle, la cui costruzione iniziava in quegli anni soprattutto allo scopo di tenere sotto controllo l’imbarazzante fenomeno dei “villaggi abissini”.
E, ancor di ieri è il ricordo di una Piazza Montanara, centro di ritrovo dei contadini in cerca di lavoro e di vetturini che avevano le loro rimesse sotto gli archi del Teatro di Marcello.
E sempre appena ieri il ricorda di una Piazza Bocca della Verità, dove, accanto i resti gloriosi di due antichi templi ed ai bei campanili romanici di due chiese medioevali, c’erano depositi di legnami, di sacchi e di ferri vecchi, un baraccone asilo dei mendicanti ed un pastificio (Pantanella….) .
Il tutto formava per la roma di allora, un insieme di abbandono e miseria, degno forse di essere riprodotto in una incisione di Piranesi o in un acquarello del Roesler Franz, ma assolutamente indegno della capitale dell’Italia fascista..
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Dalle case sotto il Vittoriano accanto la fontana dell’Ara Coeli a Via tor de Specchi, da Piazza Montanara a San Nicola i Carcere, da via della Consolazione alla casa di Cola di Rienzo ed il complesso dei Pierleoni, sino ad arrivare tra l’arco di Giano ed il tempio di Ercole Vincitore.
Forse meno di un chilometro che oggi percorriamo velocemente in auto (traffico permettendo), eppure un tempo un tessuto urbano fatto di genti e mestieri, di rotte da e per i Castelli, da Monti a Trastevere e dal mare alla Città, completamente trasfigurato, svuotato dei suoi antichi significati e contesti e che grazie a queste rare foto possiamo immaginare in parte.
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Una dolorosa Via Crucis. Grazie per lo sforzo, un lavoro straordinario alla memoria.
Le opere del regime di risanamento e di riqualificazione di una Roma
compsta, oltre che da palazzi “nobili” anche da”baracche” i cui abitanti trovne una giusta collocazione in case chiamati “lotti” ma edgne abitazini per lavoratori svilite da un commento partitico che traudo odio su di n passato chea tutti i costi si vuole cancellare per dar spazio a notizie false e yendeziose. Parlo perche in quell’accasione fu abattuta la mia casa paterna.M ao ho mai sentito in casa un rimpianto personale, ma la soddisfazioe che si facesse più bella Roma “caput mundi”. Ormai in mano ai barbari.
Foto inimmaginabili! una preziosissima testimonianza di ciò che abbiamo perduto: un gran pezzo di storia della nostra città. Quando camminerò tra queste strade e monumenti terrò presente quanto di più prezioso è stato distrutto. La documentazione è vasta, puntuale e interessantissima. Grazie a TrastevereApp la memoria del nostro passato non andrà perduta.
Molto interessante, specie per il materiale fotografico.
Dovrebbe essere maggiormente conosciuto.
Solamente cento anni fa…m