Un viaggio nel tempo…
Ottobre, tempo di vendemmia. Uve che dopo il raccolto, diviene vino a Novembre. L Osteria e nello specifico, “Le Osteria Romane, erano il luoghi dove poter godere dei piaceri di vino e buona tavola e molto altro. Diffuse sin dai secoli passati su tutto il territorio della Città e sulle strade consolari, in particolar modo sull’Appia, che conduce ai Castelli Romani, terra di produzione del celebre vino bianco.
Luoghi mitici (e mistici) della tradizione gastronomica romana, (che nel tempo cambiano nome in “trattoria” e in molto altro ancora) poco a poco scompaiono o si trasformano in pretenziosi ristoranti che più nulla conservano della freschezza e della schiettezza di cibi e personaggi di un tempo.
Introdurre le Osterie Romane, è come fare una bella passeggiata nella Roma del passato. I nostri ideali “compagni di viaggio” in questo itinerario che intendiamo condividere con voi, sono in primis: Hans Barth e i “Romani della Cisterna”, oltre che Felice Tonetti, Paolo Pardo e Roberto Vinci, che prima di noi si sono cimentati nelle ricerche.
Anni ed anni prima che la Michelin, fosse conosciuta più per la sua guida che per le gomme dei nostri autoveicoli, Il Romano d’oltrecortina “Barth” , ebbe l’idea di divulgare qualità e tipicità eno-gastronomiche e le sue “forchette e bicchieri”…non si “compravano”… come oggi accade.
Introduciamo per profondo rispetto e condivisione dei piaceri della tavola e del buon bere, il Teutonico più romano che la capitale abbia conosciuto ed un ricordo dei “Romanisti della Cisterna”.
Hans Barth
Giornalista tedesco con residenza a Roma alla fine del secolo XIX, Hans Barth effettuò un censimento di tutte le osterie, bettole, mescite disseminate fra Verona e Capri, ma con una spiccata dedizione per le Osterie Romane.
Il ” doctor” Barth, era un tedesco “romanizzato” al punto da voler essere seppellito nel cimitero protestante di Testaccio, visse lungamente a Roma dove era conosciutissimo negli ambienti artistici e letterari. Spesso, dopo aver bisbocciato tutta la notte, attendeva l’alba in qualche buona osteria e sempre, dopo parecchi litri “de quello bbono” gli potevano “apparire” dal fondo… la divina Saufeia o: la dolce compagna di Goethe, Faustina.
Nel suo libro “Osteria Kulturgeschichtlicher Führer durch italiens schenken” del 1908, (di cui arrivò ben presto una roboante traduzione in Italiano con prefazione di Gabriele D’Annunzio), egli guida l’inesperto assetato nelle migliori osterie della città, lo invita poi alle libagioni fuori porta e conclude infine il giro in un tinello o in una frasca dei Castelli. Di ogni locale descrive l’ambiente, gli avventori e l’oste con la famiglia al completo, non dimenticando mai di segnalare piatti tipici e vini, è ovvio. Libro ormai raro, di cui esiste una seconda edizione ampliata nel 1922.
…Dopo poche righe, ci si ritrova avvolti dal puzzo dei sigari toscani, dalla vista degli avventori che sputano rumorosamente a terra e da un gruppetto di artisti biondi ( danesi) ..che siedono appartati in un angolo: la corpulenta ostessa troneggia al banco, l’oste panciuto e col cappello in testa è seduto a un tavolo e il cameriere, spesso un blasonato caduto in miseria, serve ai tavoli con la salvietta sulla spalla e le dita nei bicchieri e nei colli dei mezzi litri.
A proposito di vino, del quale lo scrittore era un vero sostenitore esperto ( oggi più che Sommelier si chiamerebbe avvinazzato), nella seconda edizione italiana della sua Guida, descrive così la tendenza dell’epoca verso il salutismo e gli astemi per scelta:
Da Osterie Romane Hans Barth
“E’ cresciuta una generazione di moralmente impotenti, di homunculi, che non ha più il minimo concetto della poesia e della felicità bacchica. Una generazione di uomini inferiori… fanatici di una salute senza gioia, che col vaneggiamento degli asceti abbaia contro il delizioso culto e vorrebbe, con l’ignoranza degli iconoclasti, infrangere le belle statue antiche, per erigere sulle rovine degli altari di Bacco e di Venere, una tenda-ospedale a beneficio dell’uomo normale. Un uomo senza canti e senza suoni, senza donne e senza vino, che dovrebbe vivere una decina d’anni in più di noi.….
Vivere??? No, è trascinare anni in più la noia di un’esistenza somigliante a quella della rana amica dell’acqua, mettere al mondo altri esseri acquatici della stesa specie e guardarsi intorno con occhi imbambolati …” (p. XXI-XXII).
Consiglia Barth, parafrasando Pantagruel: si beva dunque “come rimedio sicuro contro la sete, contro il terrore della morte, contro la melanconia; bisogna bere eternamente e sorseggiare teologicamente; si beva come un templare, come la terra quando è secca, e di buon’ora; bevete sempre e non morirete mai, perchè il vino dà la divinità“. Beh insomma, aveva di sicuro principi ed idee chiare…
I Romanisti della Cisterna
La costituzione del gruppo de “I Romani della Cisterna” (dal nome del locale dove si riunivano) fu promossa da Ceccarius, al secolo Giuseppe Ceccarelli (Roma, 1889-1972). Vi aderirono Jandolo, Munoz, Mastrigli, Petrolini, Trilussa e tutti quelli che, a partire dagli anni ’30, con una sola parola si chiamarono “romanisti”, ad indicare un comune e appassionato amore per Roma al di sopra delle diversità culturali e politiche.
Forse la decisione da parte dei “Romani della Cisterna” di emulare , approfondire ed aggiornare il lavoro di Hans Barth, raccogliendo in volume alcuni scritti sulle osterie romane, è stata presa proprio davanti a un buon litro, seduti intorno a un tavolo in compagnia del “padrone”.
Osterie Romane infatti, pubblicato nel 1937, pur redatto a più mani, rivela un humus comune che si estrinseca nel desiderio di testimoniare come una certa Roma sopravvive nelle manifestazioni più semplici e immediate del suo popolo, e come certe tipologie di uomini, luoghi, cibi e consuetudini permangono immutati nel trascorrere del tempo.
La vita a Roma era cambiata molto da quella di fine 800 descritta dal Barth, la guerra e la retorica di regime, le crisi ed il boom industriale, andavano minando le atmosfere placide e sornione descritte da pittori e poeti di allora.
Già negli anni ’30 alcune osterie, già non ci sono più, pertanto la narrazione tramanda alcuni luoghi “cult” spariti ed altri che rimangono e si trasformano, qui ve ne diamo uno stralcio, per poi approfondirne uno in particolare , che ci ha portato a queste ricerche; quello di Pippo Burone.
Dal libro dei Romanisti
“” In Campo de’Fiori c’era la Luna, dove sostò Pietro Aretino, all’Osteria del Moro alla Maddalena (nessun nesso con il celebre Moro dietro la Fontana diTrevi, dove il padre dell’attuale titolare fu reclutato da Fellini per impersonare Trimalcione nel suo Satyricon) fu teatro di una delle tante risse di Caravaggio.
Sotto l’insegna del Leone prosperarono le Osterie di Vannozza Cattenei, amante del Cardinale Rodrigo Borgia, poi salito al soglio di Pietro col nome di Alessandro VI, in Campo de’ Fiori e al Biscione.
Goethe racconta di un ardente amore letterario (XV Elegia Romana) consumato con la bella Faustina all’Osteria della Campana a Vicolo di Monte Savello.
Altro celebre avventore delle osterie romane fu Ludwig di Baviera, ritratto da Franz Catel all’Osteria dell’Anglada a Ripa Grande (1824) e ora conservato alla Neue Pinakothek a Monaco di Baviera.
D’Annunzio scrisse a sua volta una appassionata prefazione al volume di Hans Barth, dedicato alle Osterie d’Italia, confessando il suo divertimento per il Bettolino degli Svizzeri, a due passi dal Vaticano.
Una descrizione gioiosa e scanzonata, assai meno dolorosa di quella dalle tinte fosche tracciata da Zola nel suo secondo romanza del ciclo Les Trois Villes che denuncia le osterie romane con parole immaginifiche: “sordidi stambugi, di cui le lastre spezzate rivelavano il sudiciume… pesci nuotanti nell’olio fetido… carne dei beccai mal tagliata… formaggi il cui odore acre copriva l’esalazione infetta delle fogne”.
Niente a che vedere, insomma, con l’atmosfera imprigionata nel celebre scatto del Conte Primoli (1861-1927), che immortala negli stessi anni l’Osteria del Tempo Perso sulla via Ardeatina,
Zeffirino stava nella piazzetta degli Otto Cantoni; demolita negli anni 30 per la liberazione dell’Augusteo “Assume il nome della sua forma medesima che presenta otto cantoni tutti simmetricamente disposti”. (Rufini 1847)..Era sempre pieno di studenti dell’Istituto di Belle Arti che divoravano i funghi arrosto con lo spicchio d’aglio “in agguato”, ma non potevano pagare e allora gli affrescavano le pareti del locale.
Ai Tre Scalini, in Parione, era cliente abituale Hans Barth ( passato di mano in mano, senza che se ne conservasse memoria storica..ndr ) che alternava i vini di Frascati , zagarolo e Grottaferrata con la trippa alla romana della sora Lella (Una antesignana dall’appellativo divenuto celebre anni dopo con Elena Fabrizi).
A piazza Montanara invece, dove corre diritta la via del Mare, (oggi via del Teatro Marcello) c’erano le osterie frequentate dai campagnoli che facevano colazione con gli spaghetti. Il vino è buono anche se non è sempre quello di Frascati.
…Giggi ai Prefetti è originario di Albano, spaccia vino di Grottaferrata e dice che viene da Frascati; Lo «staff» di questo locale rispettava tutti quei canoni che abbiamo imparato ad amare nella commedia dell’arte: l’oste panciuto e bonario, la moglie severa e silenziosa, consapevole del proprio potere derivante le dall’essere lei l’artefice del successo del locale.
. ..Il «primo cameriere», segaligno e invadente che cerca in ogni modo di ricavare il più possibile dal proprio lavoro, a causa della sua numerosissima famiglia, lo sguattero «burino» e un po’ tonto. Tutte queste figure, era possibile rintracciare entro l’osteria di Giggi.
Il Sor Antonio, vicino al Caffè Greco, innaffia gli spaghetti con rigaglie di pollo o i facioli con le codiche col vino di Frascati che arriva da Olevano Romano.
Zi’ Pippo, al vicolo del Soldato, è frequentato dalla stampa e ci si mangiano squisite pagnottelle di provatura e alici.
In via Mario dei Fiori, alla Bevitoria di Felicetto, la moglie Esterina cucina alla buona trippa al sugo, involtini di vitella, stufatino col sedano; e il vino, ripete sempre Felicetto : “”nun è vino, è cognac!””.
…Gli artisti squattrinati vanno da Basilio, in via Laurina: mangiano fettuccine e pollo in padella innaffiati con vero Frascati e, soprattutto, “segnano”: e poi, è già successo una volta, regalano a Basilio una bella matita ben appuntita per il suo compleanno.
A piazza della Rotonda c’è il Tempio di Agrippa, la vecchia Cantina Scrocca di Checco e Giulia; adesso l’ha presa Menicuccio, il cameriere, che prepara certe tegamate di carciofi a spicchi, animelle, funghi e uccelletti da leccasse le dita.
Alla Chiesa Nuova, dalla “Sora Elvira”, all’insegna della Fontaniera, fra pollo in padella alla romana con peperoncino e pomodoro fresco, pollo alla diavola, spaghetti alla matriciana e pesce di giornata c’è solo l’imbarazzo della scelta; il vino è di Grottaferrata.
Da Madonna bona, in virtù dell’avvenenza della titolare, nella silenziosa piazza Capizucchi, dietro il Ghetto, era famosa per la sua trippa e per il baccalà in guazzetto, per pochi soldi .
Da Samuele a piazza Costaguti è tutto buono: vini, carni, verdure, pesce e frutta; specialità della casa: minestra di fagioli, coratella coi carciofi, crostini alla provatura e carciofi alla giudia.
Era talmente forte il richiamo delle osterie che, quando Pippo Naldi fondò il quotidiano Il Tempo il fornito bar nei locali della redazione venne rapidamente disertato, perché tutta la redazione preferiva le fettuccine di Carlone al vicolo Capranica, con la mitica “sora Emma” in cucina a coccolarsi ogni giorno un’intera redazione affamata.
Erano i tempi in cui a Roma le osterie sostituivano i caffè letterari. Basti pensare al Sor Antonio in via Vittoria, frequentato da Boccioni, e amatissimo per gli spaghetti con le “regaglie” (le frattaglie) e per i fagioli con le cotiche. Gli improvvisatori di stornelli avevano il loro punto di ritrovo all’Osteria Nostra in vicolo del Gallo, accanto a Piazza Farnese,
…In Trastevere, dal Pastarellaro, in via San Crisogono a Trastevere sostava volentieri il poeta Trilussa, la pasta è tutta fatta in casa, sia le fettuccine per il ragù con regaglie che i fedelini per il brodo di pollo.
E se poi, per sbaglio, si dovesse finire in galera, non c’è da preoccuparsi più che tanto; alla Lungara, infatti, proprio sul lato sinistro di “Regina Coeli”, c’è una bella fila di “osteriucce” che si sono specializzate nella preparazione dei pasti per i detenuti: all’Osteria degli uccelli in gabbia, Grazie alle facilità del regime carcerario del tempo, per giunta, i suoi migliori clienti…erano i carcerati più abbienti, che potevano permettersi le sue celebri costolette di abbacchio.
…Nel quartiere del vecchio mattatoio, la sosta da Checchino dal 1887 (via Monte Testaccio 30) vale per la grande cantina e per i piatti del “quinto quarto”, cioè gli scarti di macellazione: pajata (l’intestino del lattonzolo), trippa, coda, animelle, coratella, tutte eseguite con mano da vero chef.
…Alla Campana (via della Campana, 18) che un contratto del luglio 1854 ci rivela essere stata anche sede di licenza per deposito di carrozze, i fiori di zucca fritti sono impeccabili.
…All’Enoteca Corsi (via del Gesù, 88), una vecchia bottiglieria anni ’40, si respira atmosfera d’altri tempi, mentre alla lavagna compaiono le immutabili proposte del giorno: gnocchi, zuppe, baccalà.
Felice (via Mastro Giorgio 29), proprio davanti al popolare mercato di Testaccio, oltre che per l’oste scorbutico è celebre per gli straordinari “tonnarelli” (spaghettoni acqua e farina) al cacio e pepe.
…Moschino (piazza Benedetto Brin, 3) si trova nella straordinaria scenografia del vecchio quartiere popolare primi ‘900 della Garbatella: atmosfera unica, bucatini all’amatriciana, e crocchette di bollito.
…Da Zampagna (via Ostiense, 79) davanti alla basilica di San Paolo, per l’atmosfera perduta, le porzioni “monstre” e la sfilata di tutti i classici romani eseguiti con semplicità, ma con amore. “”
..Ed eccoci, nei racconti dei Romanisti, al cuore del nostro articolo, con l’osteria del personaggio che tanto ci ha appassionato : L’osteria di Pippo Burone, anzi Osterie, perché ne ebbe ben due ed entrambe perdute a causa delle demolizioni; le prime Savoia per i muraglioni sul Tevere, la seconda per quelle effettuate a San Venanzio per realizzare la Via del Mare
…Pippo Burone, con la sora Vittoria in cucina, c’è un trionfo di gnocchi alla romana, minestre col battuto, coda di bue alla vaccinara, trippa al sugo, stufatino ai carciofoli al tegame, pasticcio di maccheroni e, per finire, visciolata”.
Prima di raccontarvi questa storia però , è bene attingere alla mutazione della società e dei costumi degli ultimi 150 anni.
“C’era una volta l’osteria romana”.
L’incipit è quello delle vecchie favole ma, a differenza di queste ultime, non c’è il lieto fine.
Parliamo infatti di qualcosa che abbiamo fatalmente perso ma che, nonostante ciò, ha lasciato un’impronta profonda nella tradizione popolare romana e laziale. Il termine osteria (arcaico: hostaria) deriva dal latino hospes, ad indicare colui che riceveva in casa i forestieri.
Le osterie, nate all’inizio come punto di ristoro lungo i tragitti che conducevano alle città o nei luoghi di maggior scambio commerciale, utilizzate, agli albori, dagli strati più poveri della popolazione, rappresentavano anche il luogo ove gli uomini trascorrevano un po’ di tempo in compagnia, scambiando quattro chiacchiere accompagnate da un bicchiere di vino e, sovente, dalla presenza di qualche signora disponibile.
Fagocitate dal Fast Food in tempi mutati radicalmente e votati ad una ristorazione rapida, poco attenta alle atmosfere, le osterie romane ci riconducono ad una Roma che fu, quando non era raro imbattersi nelle capate, branchi di animali che venivano condotti al macello.
Roma anche negli anni successivi alla breccia di Porta Pia era ancora un fiorire di campi di fave, broccoli e carciofi, di cui la toponomastica ricorda Via del Carciofolo, scomparsa a causa dell’apertura di Corso Vittorio Emanuele.
E sempre a Roma in quegli stessi anni, la stessa Villa Borghese comprendeva diverse vigne, la più antica delle quali risalente al 1580, il Vino era considerato ai tempi, più che bevanda proprio come “alimento”, materia intorno al quale è nata e si è sviluppata l’osteria.
L’insegna era solitamente composta da una corona o frasca ( da cui le famose fraschette per indicare le antiche osterie) fatta di edera, quercia o ulivo, il vino ne era il cuore e rappresentava spesso un elemento non sottovalutato dagli stessi potenti, regnanti e papi.
Con il pretesto di evitare truffe ai clienti sulla quantità e qualità del vino, ad esempio, Papa Sisto V nel 1588 impose che il vino ( già tassato dai Papi) fosse servito in brocche di vetro prodotte esclusivamente dall’ebreo Meier Maggino di Gabriello e sigillate dalla Camera apostolica.
Un doppio guadagno quindi sia sulla mescita che sul consumo giustificando l’aumento del prezzo con le tasse per limitarne il consumo ed evitare così risse e baruffe, tutelando allo stesso tempo gli avventori che, utilizzando le brocche di vetro, potevano così controllare che il vino stesso non fosse annacquato.
Per la presa di possesso del Soglio di Pietro col nome di Innocenzo X, Giovanna Battista Pamphilj, della nobile famiglia romana che si sarebbe poi fusa coi Doria genovesi, fece organizzare un meccanismo idraulico grazie al quale i due leoni egiziani alla base della rampa che sale al Campidoglio versarono per tutta una giornata rispettivamente vino bianco e vino rosso. Sulla qualità, difficile pronunciarsi, ma è molto probabile che provenisse dai Castelli.
Il vino arrivava in città sui celebri carretti di una forma che ha del grandioso,ed insieme di una semplicità antica”, aveva scritto Massimo D’Azeglio, capace di portare mezza botte, circa 500 litri, divisi in barili da 50 litri, oppure per via fluviale al suggestivo porto di Ripa Grande.
Il suono delle ruote sui ciottoli, i sampietrini, era uno dei rumori delle vecchie notti romane.
Oggi di questi carretti se ne trovano pezzi in qualcuna delle vecchie osterie, come Checco er Carrettiere in via Benedetta a Trastevere (il titolare, scomparso era uomo simpaticissimo e noto per saper eseguire le più sonore, incredibile pernacchie di tutta Roma, autentica sopravvivenza, come le Pasquinate, per esprimere l’atteggiamento scanzonato del popolo di Roma verso i potenti).
L’osteria di Checco nasce nel 1935, quando Francesco Porcelli e Diomira Porcelli rilevano l’osteria “Der Burino”, in via Benedetta 13.
Francesco, detto “Checco”, fino ad allora trasportatore di vino e grande conoscitore della zona dei castelli romani, sito d’eccellenza per il vino di qualità del Lazio, apre così la sua osteria, affiancato dalla moglie Diomira, cuoca sopraffina.
È facile immaginare che gran parte del vino consumato nelle osterie romane provenisse dai vicini Castelli ma sulla sua qualità è legittimo nutrire seri dubbi. È interessante a tal proposito ricordare quale sia l’etimologia del verbo infinocchiare: (consumato crudo, con la sua aromaticità, ha infatti la peculiarità di alterare i sapori ,In questo modo, i commensali, con il gusto alterato dal finocchio, non erano in grado di accorgersi della truffa attuata dall’oste bevendo senza lamentarsi.
L’oste era una figura archetipale: aveva solitamente fama di persona astuta poiché sapeva sapientemente conciliare le necessità ed i bisogni dei suoi avventori con il proprio tornaconto personale. Sempre ben informato grazie alle parole confidate in libertà da persone spesso “alticce”, tentava sempre di trarne un utile profitto.
L’antico detto:“fare i conti senza l’oste”non è solo indice di matematica approssimativa, perchè dal Renzo di manzoniana memoria, che a seguito dei suoi soggiorni esclamava “ Maledetti gli osti, più ne conosco, peggio li trovo”, all’oste del Gambero Rosso nel Pinocchio di Collodi che si fa complice del Gatto e dalla Volpe nel raggiro a danno del burattino, strizzando l’occhio come per dire “ Ho mangiata la foglia”, con l’oste ci si è sempre dovuti confrontare.
Il vino arrivava a Roma via terra, su carri capaci di portare 500 litri in barili da 50 litri, o per via fluviale direttamente al porto di Ripa Grande, si è persa invece memoria delle vecchie misure di vino: il tubo (1 litro), la foglietta ( ½ litro), il quartino (1/4 di litro), il chierichetto (1/5 di litro), ed il sospiro (1/10 di litro).
Era una Roma insomma, che fino il tardo 800 , era molto diversa da quella di oggi e nella quale le osterie, prosecuzione degli ostelli per i pellegrini, costituivano luogo d’incontro anche di poeti, scrittori, artisti.
Scarpone , da Garibaldi a Trilussa
…Impossibile non menzione del mitico “Scarpone” al Gianicolo: quella che una volta era una vecchia Osteria si è trasformata oggi in uno dei locali più accoglienti della città. la storia d’Italia, dalla repubblica romana fino alla seconda guerra mondiale, è passata attraverso casa Giacometti , il famoso Ristorante “Lo Scarpone” , tuttora in attività, meriterebbe una targa per quanta storia contiene ma l’oblio in questa città è di casa.
Il nome “Scarpone”nasce da un curioso storico aneddoto del risorgimento….
Esso fu uno dei primi avamposti sicuramente difesi dai Garibaldini quando, nel 1849, le truppe francesi del Generale Oudinot minacciarono la giovane Repubblica Romana.
Nelle pause dei combattimenti Garibaldi era solito fermarsi in quella che allora era solo una piccola osteria, legando il suo cavallo bianco ad un albero, il cui tronco, semidistrutto da un fulmine è ancora oggi identificabile.
Era diventato amico dell’oste e spesso si fermava a parlare con lui chiamandolo confidenzialmente “SCARPONE” per via delle grosse scarpe piene di fango, che egli usava per lavorare nei campi.
Dante..Caravaggio ed avventori comuni
…In via della Maddalena l’Osteria del Moro fu teatro di una delle innumerevoli risse di Caravaggio; Goethe racconta di un amore letterario consumato con la bella Faustina all’Osteria della Campana a Vicolo di Monte Savello.
Alla taverna dell’Orso, Dante si affacciò per assistere al Giubileo del 1300. (oggi restaurata
in stile chic e sede romana del celebre Gualtiero Marchesi e sede della mitica discoteca Cabala)
All’osteria.. ci riporta la stessa maschera romana di Meo Patacca, luogo dove amava mangiare e scambiare chiacchiere con i suoi compari, o Rugantino che, proprio all’osteria di Mastro Titta, lanciò la scommessa che Rosetta sarebbe stata sua e venendo a tempi più prossimi, il legame dell’osteria con personaggi quali Pier Paolo Pasolini, Aldo Fabrizi, Giancarlo Fusco.
La cinematografia ci ha lasciato fior di testimonianze indimenticabili sia nel neorealismo che in rivisitazioni storiche, di come l’osteria fosse il luogo prediletto, per bere e giocare a carte, uno su tutti il Marchese del Grillo interpretato in modo mirabile da Alberto Sordi
Scena altrettanto emblematica di come l’Osteria Romana (alla Consolazione…) fosse sopravvissuta fin quasi agli anni 70, il trio Gassman, Manfredi e Satta Flores in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, riuniti per mangiare un piatto di lesso alla picchiapò?
L’osteria ha scandito la vita dei romani, nel bene e nel male, strizzando l’occhio per secoli a nobili e popolani, ad artisti ed artigiani, a truffatori e poeti, creando un’atmosfera, viva, reale, conviviale, soprattutto ospitale.
Nella città pontificia del secolo scorso, ove i soli luoghi di raduno popolare erano le chiese all’ora delle funzioni, e dove le autorità non favorivano il formarsi di riunioni laiche di massa, al romano restava l’osteria. E anche questa, talora, non era vista di buon occhio dai reggitori urbani: tanto è vero che in certi periodi politicamente delicati gli osti erano obbligati a isolare con cancellate i loro locali dopo il tramonto, affinché gli avvinazzati e i liberali non macchinassero disordini.
I bevitori ritardatari dovevano adattarsi a bere in piedi, facendosi passare bottiglie e bicchieri attraverso le sbarre, come scimmiotti di un odierno zoo. Il tavolo della bettola – magari un rude asse di castagno o leccio incoronato di seggiole impagliate – era in realtà il vero nucleo della società popolana, la calamita che attirava i cittadini al luogo di convegno; soltanto qui la comunità rionale ritrovava sé stessa, gli individui si riconoscevano come membri di un collettivo.
Ai vari tavoli sedevano, molto cameratescamente, artigiani, operai, nobilucci decaduti, pensionati, spazzini, anziane coppiette, vedove mature; ma anche l’avventore casuale, dopo il primo mezzo litro era amabilmente interpellato dai fraternizzanti vicini e accolto al loro tavolo con un ospitale bicchierone raso.
Era luogo di completa libertà, anche fisica: nelle belle sere d’estate le matrone si stravaccavano slacciandosi il corsetto con un «uffa» di sollievo, gli uomini si scamiciavano senza cerimonie, i ragazzini si scalmanavano nel fantastico campo di battaglia formato dalle gambe dei tavolini e dei bevitori.
I cani filosofavano fiutando illustri rifiuti. L’oste e il cameriere, nelle frequenti tregue fra le varie ordinazioni, sedevano anch’essi coi clienti a discorrere da pari a pari. Spesso, a serata finita, era l’oste medesimo a suggellare le nuove e vecchie amicizie con l’offerta di una bottiglia di un suo «spumantino speciale» della riserva d’onore.
Nella fisionomia della città, l’osteria, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, era parte complementare ma necessaria del composito paesaggio del centro storico, oppure della verde periferia «fuori porta»; faceva corpo con le casupole settecentesche, coi paracarri lisi di pietra agli spigoli dei palazzi, con le barocche finestre a griglia, lo spezzone di antica colonna murato sotto un architrave, il pergolato.
Era semplicissima, sormontata tutt’al più da un tabellone bombato di lamiera dipinto in rosso, in turchino; spesso bastava una semplice frasca di alloro appesa all’arcone d’ingresso per annunciare che il vino d’annata era giunto fresco fresco dai Castelli. L’interno non era molto mutato rispetto a quello tramandatoci nelle stampe di Bartolomeo Pinelli: vòlte ariose, tavolini nudi o mal ricoperti da un democratico e affrittellato fogliaccio di carta bianca in luogo di tovaglia.
Alle pareti talvolta una rozza scritta si affiancava a un galletto dipinto da un pennello ingenuo: «Quando questo gallo canterà / qui credenza si farà». Spesso poi le muraglie avevano affreschi: paesaggi agresti, pergolati , trappoloni d’uva, talora un Bacco rubizzo a cavalcione di un barile: gli ex-voto di una società crapulona e bonaria. Altre volte, persino, qualcuno dei clienti fornito di vena rimereccia aveva vergato un sonetto entusiasta, un ditirambo in onore del vino e dell’oste; e quest’ultimo, compiaciuto, lo aveva fatto dipingere a grandi lettere – un datzebao casalingo! – sul punto più in vista della parete.
Nel Dopoguerra i primi sintomi di cambiamento
Poi però, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in coincidenza o per effetto del mal solido boom industriale e commerciale che stravolse i connotati della città, l’aspetto delle osterie si andò trasformando rapidamente. Al posto dei dipinti, le lastre di plastica pubblicitarie con marche di bibite, di birre, di ambigui aperitivi industriali; al posto dell’intonaco, brutti parati di carta plasticata simulanti muri di pietra e rustici ammattonati; al posto del galletto o del sonetto, le foto di attori e calciatori imbellettati e imbrillantinati, sbircianti con aria assorta o birichina sopra la uniforme platea dei tavolini tubiformi, nichelati, degni di un nosocomio. Era un segno del mutar dei tempi.
L’artigiano si era metamorfosato in impiegato, la rude franchezza popolana si copriva, si mascherava di una sussiegosa alterigia da dottorino; la promiscuità sociale che una volta univa al tavolo della bettola il nobilastro e il carrettiere, cedeva ora il posto a una indispettita, puntigliosa segregazione dei vari livelli sociali; l’elemento popolano e borgataro veniva isolato, emarginato, espulso a poco a poco, per lasciare insediare il nuovo ceto vincente, burocratico. E l’osteria diventava Hostaria: nella illusione che bastasse un’acca a designare il prestigio, la distinzione, il tratto non-popolano dei nuovi occupanti.
Ed era proprio il senso profondo ed originario di luogo di ospitalità a rendere l’antica Osteria Romana, quella ormai perduta, sede unica di condivisione di esperienze, tragedie, drammi, pianti, urla, sberleffi, stornelli, era un palcoscenico di vita, magari odiata e maleodorante come un vino inacidito o sfrontata come l’espressione di una prostituta, ma pur sempre vita, reale, concreta, pulsante, non certo la tavola di oggi dove il piatto forte della comunicazione a tavola è…il cellulare.
Privo di una vera vita teatrale e culturale, disertando i musei, , schivando le mostre d’arte e le gallerie, detestando l’atmosfera da ospizio dei circoli ricreativi, oggi come ieri il “romano-tipo” usa il tavolino dell’osteria, come unica, genuina e importante espressione del suo genio sociale o come edonistica rappresentazione di status, ma quello che era un palco di un teatro oggi assomiglia più alla location di un reality show, dove ben si sa…di vero c’è ben poco.
E pensare che quella romanità era sopravvissuta a guerre e ricostruzione e persino negli anni del boom, dinanzi al buio delle serate vuote, illuminate soltanto dall’incubo azzurro della TV, spesso non restava altro per sentirsi davvero vivo, che qualche ora da passare lontano da queste modernità, meglio se dinanzi a un tavolino, con gli amici . Perché mangiare e bere in compagnia era Il carattere viscerale, del modo di divertirsi dei romani d’antico ceppo, eredità genetica di banchetti neroniani, arrosti medicei e papalini in riva al Tevere, avido frugar di plebi tra le frattaglie e le carcasse gettate alle soglie dei mattatoi.
Cosa rimane oggi di quelle atmosfere in quei luoghi che, magari con fatica e gusto antico, ammiccano ancora quei tempi, con furbe sceneggiate di tovaglie a quadri e fiaschi appesi assieme a trecce d’aglio? Ben poco …perché è il materiale umano non più all’altezza, a partire dalla figura del’oste, difficilmente disponibile e carismatico , per finire a quella dei commensali; che siano turisti che abboccano ad un tuffo nella roma sparita o avventori locali, in entrambi ormai il blu degli schermi illumina volti di gente …che più non si parla.
Ed ora: Pippo Burone
Beh, dopo questo “pippone” storico sulle Osterie Romane, vorremmo tramandarvi la storia di Pippo Burone. Tutto nasce da una foto (quella sopra) e delle info inviateci da Massimo Lazzari ; pronipote di Filippo Lazzari , al secolo (scorso) nella storia Romana appunto : Pippo Burone. Quel che ci ha appassionato al punto di andare a cercare radici più profonde su lui e sulla ristorazione Romana, nasce da una foto e da una storia appassionante che va da prima dell’Unità Italiana alle demolizioni del ventennio. Il soprannome “burone”, sembra attinga al suo modo di precipitarsi sui clienti o, comunque, muoversi bruscamente come chi precipita in un burrone (che in romanesco perde una erre…). Altre fonti parlano invece del nome dell’osteria che nasce alla Gensola, per diversificarsi da una limitrofa e Burone sarebbe il clivio oltre l’osteria, che dai “Bucioni” (pertugi e scale) degradavano bruscamente nel fiume Tevere appunto come un burrone. Ma vi regaliamo questo prezioso articolo di Felice Tonetti, in cui perdersi nella descrizione delle sue gesta e peregrinazioni:
“L’osteria di Pippo Burone, o del Sig. Filippo Precipizi, come diceva l’indimenticabile Gigi Lucatelli, si trovava in uno dei punti più caratteristici del Trastevere, fra la piazzetta delle Gensole in Piscinula e la riva del Tevere, di fronte all’isola di S. Bartolomeo. Prima che si costruissero i lungotevere, utilissimo, solenne e funebre lavoro, anche in quel punto le casette di Trastevere si specchiavano nelle acque del fiume. salvo in un tratto, chiuso da un muro con due varchi che conducevano ad una piccola ripa, «comoda per lo sbarco e l’imbarco dei navicelli od agli ancor resistenti giornelli, e per il contrabbando, Quel tratto e quei varchi si chiamavano “li Bucioni” ed il Tevere in quella località era volgarmente chiamato “er fosso de Panonto”.
Il quale effettivamente è un antico libro di cucina, un tempo celebre e nelle mani di tutte le buone massaie, premurose che i loro uomini mangiassero bene, come oggi si consultano l’Artusi o ( La cucina Romana ) redatta dalla autorevolissima Ada Boni.
Quest’angoletto di Roma è ”stato il regno di Pippo Burone, senza alcun dubbio uno dei più caratteristici ed illustri fra gli osti romani. Una casetta bassa, una cucina ristretta, poche stanze, una vetrinola d’ingresso dalla Lungaretta, un’altra verso li Bucioni: e lì dentro pontificavano Pippo e la moglie, la Sora Vittoria, la coppia più propizia per garantire agli avventori le maggiori soddisfazioni bibitorie e gastronomiche del mondo.
La donna poteva considerarsi, infatti, come la più degna erede del leggendario, ma pure autentico Panonto, tanto era brava preparatrice dei piatti più caratteristici della cucina trasteverina, grave, ma saporitissima ed imperiosa, da i gnocchi alla romana alle svariate minestre cor battuto alla coda di bue alla vaccinara cor sellero, alla trippa ar sugo…dallo stufatino ai carciofi al tegame e, come piatti dolci, dalla crostata di visciole al pasticcio de maccaroni.
La “Sora Vittoria”, abbondante di forme e di viso, col volto aperto e sorridente, sudata nelle estate innanzi i grandi fuochi di quella piccola cucina, compariva alle tavole dei più importanti clienti soltanto alla fine, a gradire il rinfresco di un bicchiere di vino e le meritate parole di lode. Pippo Burone era anche lui bassotto, abbondante di spalle e di trippa.
Volto largo e colorito, vestito molto sommario, maglia scollata e camicia sempre sbottonata e senza colletto, e sul capo la scoppoletta di Serge nero ,propria degli osti o dei carrettieri a vino. Era, e giustamente ci teneva, uno dei più grandi conoscitori di vini dei Castelli che siano mai esistiti. Prima di tutto per Pippo non esisteva altro vino che quello dei Castel-li e nemmeno di tutti i Castelli: Grottaferrata, doveva essere, o Frascati, o Mamo, basta; Albano, Montecomparti, Castello, Genzano, “Sì, nun c’è male, ma nun è quello che volemo noi”!
Competentissimo, galantuomo, pagatore a contanti e senza troppo tirare, perché la clientela :che andava da lui per il vino buono non badava a spese, aveva i tinelli più famosi a disposizione. Ogni tanto armava er carettino e se n’andava in giro di investigazione, per le vigne, di tinello in tinello; assaggiava coscienziosamente centinaia di botti e ne sceglieva qualche decina, nelle varie sorti bianco, rosso, asciutto amaro, nocchioso, sulla vena, cannellino…combinava il prezzo e dava la caparra. Allora il vignarolo scriveva sul piano della botte, col gesso, BURONE, e quella botte era sua in eterno,
da caricarsi a sua volontà, quando ne avesse dato ordine al produttore con una cartolina.
Se aveva scovato qualcosa proprio di prelibato qualche botte non prusurtra, allora ne dava notizia agli avventori con malcelata e legittima soddisfazione… Ho trovo du’ botte asciutte amare alla Toretta da De Mattia.. diceva “propro come piaceno a’ voi, sor Nino, e sentirete si che manna!” E gli avventori pregustavano il nuovo acquisto e non mancavano di trovarsi presenti la mattina dello scarico, quando c’era l’offerta gratuita del vino appena arrivato e rimesso in grotta.
Con questa saggezza e con questa coscienza, Pippo Burone aveva riunito una clientela numerosa e sceltissima. I majorenghi di Trastevere si vedevano tutti da lui, i più ricchi vaccinari e bagarini de‘l mercato degli erbaggi e della frutta.; i piloti e i “capipresa” della allora fiorente navigazione sul Tevere erano sempre da Pippo, a bere o l°ultimo vino arrivato, o quel certo vino messo da parte in cantina proprio per questo o per quell’ avventore . Quando vedeva i bassi e fumosi locali dell’Osteria gremiti di clienti; tutti buoni pagatori ed amici , Pippo Burone esultava .
Ognuno lo chiamava o per dare ordini o per un consiglio: “Pippo viè un pò qua” …e lui rispondeva con un certo “Viengo”, pieno di cortese gravità , assai appoggiato sulla è , che era una delle sue carateristiche ricordative. E siccome il romanesco beve o, meglio, beveva volentieri ma anche era fedele alla pratica de ” magnà quarche cosetta pé bevécce sopra” , così la cucina lavorava sempre ed a qualunque ora e quando proprio non c’era più niente da cuocere, si ricorreva ad un classico ed anche lui celebre friggitore a due porte vicine, all’imbocco della Lungaretta, ove non mancavano mai i pezzetti, nè la polenta fritta, nè li filetti de baccalà.
Ed allo stringere del salmo, il conto lo faceva lui, e col gesso sulla lavagnetta. Ai conti scritti sugli stampati appositi si arrese assai tardi e a malincuore. Un brutto giorno, molti anni fa, fu costruito il lungotevere e così sparirono li Bucioni ed il passo per il fiume: poi furono demolite molte case vicine; poi l’amico Nunes fece un gioiello d’arte di quelle dei Mattei, adiacenti all’osteria. Per un locale di quel tipo l’ambiente non conveniva più, ed allora i figliuoli di Pippo Burone decisero di cambiarlo, e nientemeno scelsero uno dei punti più in vista, ossia l’angolo fra la piazza di S. Marco e via Giulio Romano, ai piedi del monumento a Vittorio Emanuele, verso il Campidoglio.
Pippo si accomodò al trasloco, ma per lui fu un grande sacrificio.In Piscinula la scoppoletta, la maglia scollata, i calzoni retti approssimativamente con una cinta erano secondo il colore locale, invece gli misero in testa una bombetta, l’obbligarono ad infilare un colletto duro con cravatta, panciotto, giacca; un vero tormento. Ed altrettanto era il fatto che l’Osteria già a li Bucioni…era diventato un ristorante alla moda, con cristallerie, porcellane e tovaglie di lino. Niente più coda alla vaccinara, ma roasbiff, né più gnocchi alla romana ma zuppa alla pavese: che poteva più fare quel poveretto, nato e vissuto nelle più sommarie e trascurate abitudini?
Gli spostamenti e le demolizioni a Roma
…Ha retto un po e poi se ne è andato al Creatore. Poco appresso a lui è scomparso il ristorante, sono sparite le case, le chiese vicine, S. Venanzio dei Camerinesi, S. Rita da Cascia, le altre celebri osterie di Meloni e di Gatti, già dominatrici del Borgo Pio, che stavano nascoste dietro» quella di Pippo, e sul luogo ora c’è un largo, un giardino, una svettata di pini nel cielo di Roma. È quello il punto più nobile del mondo: l’Altare della Patria, l’Aracoeli, ossia la Chiesa del popolo di Roma, il Campidoglio, il Palazzo di papa Barbo…!
Conclusioni…
…E’ stato un bel viaggio …se ci avete seguito fin quaggiù…ma credevamo utile ricordare queste figure che hanno fatto Roma, al pari di uomini illustri cui è stata dedicata una targa o un busto. Nel caso di Pippo e molti altri, purtroppo non ci sarebbe nemmeno dove appenderle, in quanto le demolizioni non hanno spazzato via solo palazzi e secoli di storia, ma anche mestieri e vite vissute, socialità… Quella vera dove ci si guardava negli occhi con battute e rimbecchi al vetriolo o scanzonati.
Tanta di questa Roma è consegnata al passato chi ne cerca memoria sul web, ultimo baluardo per gli assetati di cultura e corollario di aneddoti. Storie e luoghi come quelli citati, ce ne saranno tante altre…idem foto di famiglia fuori dalle attività o sui terrazzi di una Roma sparita, a volte proprio quest’ultime sono il primo click verso un viaggio infinito…e chissà se con questa ultima foto non venissimo a conoscenza di altri eredi ed altrettanti aneddoti?
Se dovesse succedere fatelo su Twitter @trastevereRM o su PaginaFacebook
.
Semplicemente… meraviglioso!!!
Un repertorio davvero molto completo…. Complimenti!!!